Progetto Čechov
Maratona teatrale
Al Teatro Morlacchi va in scena un’imperdibile maratona teatrale per immergersi nel mondo del drammaturgo russo reinterpretato dal regista in chiave contemporanea.
«Tre case, o forse la stessa, tre famiglie, o forse la stessa».
Leonardo Lidi porta in scena la trilogia completa dedicata ad Anton Čechov, progetto avviato nel 2022 con Il gabbiano, seguito da Zio Vanja e che arriva a compimento quest’anno con la messa in scena de Il giardino dei ciliegi. Un percorso in cui il regista si è confrontato con il suo autore preferito e nel quale ha visto la possibilità di tornare al senso pratico del teatro.
MARATONA TEATRALE AL TEATRO MORLACCHI / DOMENICA 27 OTTOBRE
IL GABBIANO ore 11:30
ZIO VANJA ore 15:00
IL GIARDINO DEI CILIEGI ore 18:00
* tre spettacoli a 45 euro.
È possibile acquistare i biglietti direttamente al Botteghino Teatro Morlacchi, piazza Morlacchi, 13.
Tel. 075 5722555 | dal lunedì al sabato dalle 17 alle 20 | lunedì, mercoledì, venerdì dalle 10 alle 13.30 e dalle 17 alle 20.
Oppure si può prenotare chiamando il Botteghino telefonico regionale: Tel 075 57542222, dal lunedì al sabato dalle 17 alle 20.
Non sarà possibile l’acquisto online.
La Locandina
traduzione Fausto Malcovati
regia Leonardo Lidi
con Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Alfonso De Vreese, Ilaria Falini, Christian La Rosa, Francesca Mazza, Angela Malfitano, Orietta Notari, Mario Pirrello, Tino Rossi, Massimiliano Speziani, Giuliana Vigogna
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Aurora Damanti
suono Franco Visioli
assistente alla regia Alba Porto
produzione Teatro Stabile dell’Umbria
in coproduzione con Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Spoleto Festival dei Due Mondi
Info
IL GABBIANO
durata 1 ora e 50 minuti
ZIO VANJA
durata 1 ora e 45 minuti
IL GIARDINO DEI CILIEGI
durata 1 ora e 40 minuti
Note di Leonardo Lidi
Ognuno reagisce a suo modo. Io, nel mio piccolo, ho reagito così. Durante la pandemia erano in tanti ad associarsi, mobilitarsi e interrogarsi su quello che sarebbe stato il futuro del nostro mestiere. Anche per me, ovviamente, la domanda si è fatta costante e mi è venuto spontaneo allontanarmi dalla conversazione fino a sparire per chiedermi sinceramente, nel mio intimo, che cosa mi aspettassi dal teatro del domani e da me stesso come regista. Stimolato così da Nino Marino, direttore del Teatro Stabile dell’Umbria, sulla nuova triennalità post pandemica ho risposto che Čechov sarebbe stata la scelta giusta per ricominciare. Una trilogia con la stessa Compagnia per sottolineare l’importanza e il talento delle attrici e degli attori italiani, classificati nei pensieri politici in zona retrocessione ma vera pietra preziosa del teatro italiano. La compagnia doveva dunque rappresentare la categoria in tutte le sue diversità, di esperienza e luogo, abbracciando sotto lo stesso tetto l’eredità dei maestri di fine secolo, teatro d’avanguardia, esperienze di collettivo, associazioni culturali, difficoltà della provincia e il precariato totalizzante delle nuove generazioni. Unico comune denominatore richiesto per affrontare l’autore russo: la sincerità d’animo. Essere cristallini nella volontà di consegnare tre testi straordinari al pubblico attraverso la forza di insieme e saper dunque cogliere l’amore che Čechov dedicava alla figura dell’attore nelle sue dinamiche di scrittura. Per dirla in maniera sciocca: abbiamo chiesto al Dottore di insegnarci a come volerci bene. E non si può che amarli questi straordinari artisti: Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Alfonso De Vreese, Ilaria Falini, Christian La Rosa, Angela Malfitano, Francesca Mazza, Orietta Notari, Mario Pirrello, Tino Rossi, Massimiliano Speziani e Giuliana Vigogna.
LA SCELTA DEI TESTI E DELLA CRONOLOGIA
IL GABBIANO – Rientrate in teatro, sì: ma per dirci che? Nel nostro teatro la forma sta uccidendo il contenuto irrimediabilmente o si può ancora ambire al ritorno delle storie? Nelle mie continue furie da spettatore noto sempre di più che in tanti preferiscono parlare a pochi, contestazione riconducibile alla drammaturgia come alla politica, lasciando così successi e spazi a cialtronerie populiste. Il viaggio di Treplev e le perplessità di Trigorin ci domandano di cosa vogliamo parlare una volta saliti sul palcoscenico e in che modo; se possiamo abbandonare l’eccesso di simbolismo in favore del cittadino e se non sia il caso di liberarci dalla giovanilistica scorciatoia della novità. Treplev – “sì, mi vado sempre più convincendo che non si tratta di forme vecchie e nuove, ma del fatto che l’uomo scrive, senza pensare alle forme, scrive perché gli fluisce liberamente l’anima”. Il gabbiano ha presentato in maniera netta il parallelismo, fulcro del Progetto Čechov, tra società e palcoscenico, mettendo in scena madri attrici, figli amletici, drammaturghi, registi, giovani attrici e spettatori annoiati. Specchiarsi nel pubblico, o nel lago, per riconoscersi. Per ritrovarsi grazie all’amore. Dorn – Quanto amore, lago incantatore.
ZIO VANJA – Una volta ucciso il Gabbiano, fatto sparire sotto un lenzuolo bianco l’astrattismo dalle assi del nostro palcoscenico, ci concentriamo sulla storia della nostra strana società/famiglia e sul suo stato di ininfluenza. La famosa conferenza stampa dove l’ex Premier dichiarava “un occhio di attenzione per i nostri artisti che ci fanno tanto divertire e tanto appassionare” è stata una manna dal cielo per questo spettacolo che, in formato divertito e appassionante, ha saputo ridere delle nostre ridicolaggini. Tutti i personaggi, compreso il demone del legno Astrov, sbattono la testa nella sensazione di vivere in una stagione che ha perso la forza d’impatto, che non crede più nella sua natura e che genera dunque una confusa e pericolosa genericità tra eccessi di tradizione e cinemonologhi. Un teatro che non crede più in se stesso è un teatro ininfluente, un luogo che, nascondendosi nei fasti del passato, uccide la possibilità del presente. Vanja: “sono cinquant’anni che parliamo, parliamo, leggiamo opuscoli. È ora di piantarla… fino all’anno scorso anche io come te mi riempivo la testa con tutti questi sofismi, per non guardare in faccia la vita vera, e credevo di fare bene. Adesso, se tu sapessi!! Passo intere notti a rodermi dalla rabbia per aver buttato così stupidamente il mio tempo.
IL GIARDINO DEI CILIEGI – Un luogo che vive solo nel ricordo. Il nostro inutile giardino, il nostro teatro pubblico, non si può basare solo sui numeri e non si può valutare solo contando quante ciliegie produce di anno in anno. Altrimenti, ieri come oggi, tanto vale privatizzarlo e farci tante villette per i turisti. Se non c’è rischio non è Pubblico e non merita di essere sostenuto dalle persone. Se l’unico pensiero è avere sempre di più, accumulare in maniera autolesionista e spremere le persone accanto a noi, se crediamo in questa forma di schiavismo del nuovo millennio, se smettiamo di occuparci della qualità delle nostre vite attraverso la qualità della vita degli altri allora mi chiedo che cosa stiamo facendo, ancora, su un palcoscenico. E se lo chiedono anche gli attori, abbandonati a dover elemosinare attenzione con lunghi monologhi emotivi ed effimeri su armadi di cento anni fa. A dover auto affermare il valore del proprio lavoro. Ci siamo dimenticati di loro, abbiamo chiuso la porta a doppia mandata e li abbiamo lasciati agonizzanti dopo aver sfruttato il loro servizio. Ecco l’ultima immagine che Čechov ci lascia nel finale di Giardino, il finale di una vita spesa per il teatro. Un “servitore” dimenticato che dice a se stesso, o al teatro che sta occupando: Firs : “…non hai più forze, non ti è rimasto proprio nulla, nulla, eh, buono a nulla…” Poi una corda tragica di violino a riempire la scena. Anton Čechov, dopo tutta questa buona marmellata regalata, ci lascia con una nota triste, come se non avesse più voglia di ridere. E infatti c’è da piangere. O, appunto, da reagire credendo nella forza presente del Teatro.