Il giardino dei ciliegi
Progetto Čechov - terza tappa
Scritta con grande fatica e terminata alla fine del 1903, Il giardino dei ciliegi è l’ultima commedia di Čechov, nata originariamente da un “fortissimo desiderio di scrivere un vaudeville”. Si apre nel mese di maggio, quando i ciliegi sono in fiore: Ranevskaja Liubov’ Andreevna ritorna nella sua tenuta di campagna, dopo aver dilapidato il patrimonio di famiglia. La proprietà è destinata a essere venduta all’asta per poter coprire i debiti accumulati. Il mercante Lopachin, discendente della famiglia di servi anticamente alle dipendenze dei vecchi proprietari, suggerisce di dividere la tenuta in lotti per costruire villette dalla cui vendita ricavare i soldi necessari, e salvare quindi parte della proprietà.
Il giardino rappresenta per i suoi proprietari un’ancora alla giovinezza e uno scrigno per i ricordi di una vita, e questo rallenta la decisione. Insopportabile il pensiero di assistere all’abbattimento dei meravigliosi alberi del giardino. Sarà inevitabile. Nessuno, infatti, riesce a salvare la proprietà, con tutti i ricordi e i legami affettivi che contiene, dalla vendita e dalla lottizzazione. Proprio il mercante Lopachin, di cui è innamorata Varja, una delle figlie della proprietaria, acquisterà il giardino e darà l’avvio all’abbattimento necessario alla ricostruzione.
Čechov traccia un quadro del suo tempo, ma anche del nostro. “Io descrivo la vita”, scriveva subito dopo il successo de Il giardino dei ciliegi, per difendere il carattere delle sue commedie, tetro, forse, ma mai “stucchevole” o “lacrimevole”.
La Locandina
traduzione Fausto Malcovati
regia Leonardo Lidi
con (in o. a.) Giordano Agrusta (Boris Borisovic Simeonov-Piscik), Maurizio Cardillo (Charlotta Ivanovna), Alfonso De Vreese (Jasa), Ilaria Falini (Varja, figlia adottiva di Ljubov’), Christian La Rosa (Peter Sergeevic Trofimov), Angela Malfitano (Dunja), Francesca Mazza (Ljubov’ Andreevna), Orietta Notari (Lenja Andreevna, sorella di Ljubov’), Mario Pirrello (Ermolaj Alekseevic Lopachin), Tino Rossi (Firs), Massimiliano Speziani (Semen Panteleevic Epichodov), Giuliana Vigogna (Anja, figlia di Ljubov’)
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Aurora Damanti
suono Franco Visioli
assistente alla regia Alba Porto
produzione Teatro Stabile dell’Umbria
in coproduzione con Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Spoleto Festival dei Due Mondi
Info
DURATA 1 ora e 40
NOTE DI REGIA
Leggendo Il giardino dei ciliegi di Anton Čechov mi è sempre sembrato palese – e magari ho sempre sbagliato – che il nostro giardino è sinonimo di nostro teatro. Ed avendo avuto il progetto Čechov una validità politica dal suo principio, dal rientro post pandemico con Gabbiano per interrogarci sul come ripartire nell’incontro con il pubblico, mi sembra stimolante chiudere il cerchio con questo testo così profondo nelle sue domande. Un testo, l’ultimo di Čechov, che presenta a tratti monologhi più concettuali e smaccatamente filosofici rispetto ai precedenti, ma che continua a sballottarci da un personaggio all’altro, spostando la “ragione” su più punti e facendoci letteralmente girare la testa. Termineremo il viaggio confusi, pieni di domande e con pochissime risposte. Ecco, forse, cosa vuol dire drammaturgia. Ecco perché Čechov, sopravvissuto al tempo, dovrebbe essere il maestro di riferimento del teatro del domani: un simpatico individuo che prendendosi un po’ in giro immette generosamente una riflessione nell’altro. Con la cura verso l’altro e la noncuranza del proprio io. In un teatro dove bisogna autodefinirsi pedagoghi e maestri per salvarsi dalla mediocrità, Čechov ci rassicura nel dubbio, citando Amleto attraverso le mani troppo in movimento di Lopachin e ci ricorda che il dubbio fa parte del nostro mestiere e che senza di quello non potremmo sopravvivere, che senza il dubbio la creatività perde appetito. In un’Italia che cerca sempre di più sintetiche risposte sbertucciando la complessità, il progetto Čechov rischia di non sapere. Si potrebbe scomodare il paradosso socratico del “allora capii che veramente io ero il più sapiente perché ero l’unico che non sa né pensa di sapere” ma sono certo di poter esprimere lo stesso concetto con qualche canzoncina da Festivalbar nella prossima messinscena.
Per chi conosce il testo: se inizialmente ci sembra normale parteggiare per il monologo di Trofimov e il suo concetto di essere consapevolmente un eterno studente, colui che comprende che per avanzare nella vita non bisogna mai smettere di lavorare e di far lavorare la propria mente, non posso non saltare sulla sedia ogni volta che leggo che l’unico ad andare a teatro in questo copione è Lopachin. Lopachin, che si sveglia alle cinque del mattino, figlio di contadini, Lopachin che ha fatto i soldi e che pensa a come farne sempre di più, ieri sera è stato a teatro a differenza di tutti gli intellettuali presenti in quella casa. Ecco, tutto qui. Ecco che, per l’ennesima volta, non possiamo accomodarci sulla lettura spiccia dei buoni e dei cattivi, ma che per raccontare la complessità umana divertendoci dobbiamo ricercare i paradossi della gente. Lopachin e Trofimov, semplificando, sono una mano destra e una mano sinistra che si stringono solo nell’incapacità di dichiararsi alla donna amata nel loro infantilismo relazionale. Ed ecco che le donne Ljubov’, Dunja, Varja e Anja, che hanno creduto nell’amore, si ritrovano sistematicamente sconfitte e deluse dai loro uomini, troppo distratti dai pensieri del proprio ombelico. Ed ecco Charlotta, sola da sempre e per sempre, che simula un infanticidio per divertimento, sbarazzandosi così di un fantoccio bambino e della retorica del ruolo teatrale donna/mamma. Un calcio nelle palle al capocomicato con i suoi personaggi femminili così semplificati. Che grande Čechov!
Che bello Il giardino dei ciliegi! Che non si può incasellare, che non può essere fatto in nessun modo se non in quello più difficile, che necessita di un credo radicale nell’atto creativo. La richiesta alla nobiltà d’animo, alla generosità come più grande forma d’arte. Un luogo, un giardino/teatro, che aveva trovato la sua utilità cento anni fa e che adesso vive solo nel ricordo dei suoi interpreti. Che adesso non produce più la marmellata di cui i nostri nonni erano tanto ghiotti e che per questo si può tranquillamente buttare giù in favore di un parcheggio.
“Bisognerebbe buttarlo giù questo teatro” tuonava il maestro del Gabbiano. Eccoci ancora qui. Sarà un piacere vederli tutti di fila. E va bene inorridire pensando alla ruspa che distruggerà i nostri alberi ma forse dovremmo coraggiosamente prendere per il bavero anche lo zio Gaev che, colpevolmente, parla di caramelle e si protegge nel ciò che è stato e che, per paura della morte e dello scorrere del tempo, si facilita l’esistenza associando il presente e il denaro alla volgarità. Senza prendere il toro per le corna, decidendo di non essere incisivo. E di perdere. Ma in questo tempo la testa va lasciata fuori dalla sabbia, in questo tempo è importante ribadire a gran voce che il nostro inutile giardino, il nostro teatro pubblico, non si può basare solo sui numeri, non si può valutare solo contando quante ciliegie produce di anno in anno.
Altrimenti, ieri come oggi, tanto vale privatizzarlo e farci tante villette per i turisti. Se non c’è rischio di impresa non è Pubblico e non merita di essere sostenuto dalle persone. E non fate i furbi su questo: non nascondetevi dietro il sipario se non amate il teatro. Se volete più ciliegie in maniera dozzinale solo per produrre fiumi di marmellata non è un grande giardino – citato anche nel dizionario enciclopedico – il posto adatto a voi. Se l’unico pensiero è avere sempre di più, accumulare in maniera autolesionista e spremere le persone accanto a noi, se crediamo in questa forma di schiavismo del nuovo millennio, se smettiamo di occuparci della qualità delle nostre vite attraverso la qualità della vita degli altri allora mi chiedo che cosa stiamo facendo, ancora, su un palcoscenico. E se lo chiedono anche gli attori, abbandonati nel tempo a dover elemosinare attenzione con lunghi monologhi emotivi ed effimeri, su armadi di cento anni fa. A dover auto affermare il valore del proprio lavoro. Ci siamo dimenticati di loro, abbiamo chiuso la porta a doppia mandata e li abbiamo lasciati agonizzanti dopo aver sfruttato il loro servizio. Ecco l’ultima immagine che Čechov ci lascia nel finale di Giardino, nel finale di una vita spesa per il teatro. Una persona che ha servito altre persone per tutta la vita, senza se e senza ma, dimenticato. Dice a se stesso, o al teatro che sta occupando “…Non hai più forze, non ti è rimasto proprio niente, niente… Eh, buono a nulla…”. Poi una corda tragica di violino a riempire la scena. Anche Čechov, dopo tutta questa buona marmellata regalata, ci lascia con una nota triste, come se non avesse più voglia di ridere. E infatti c’è da piangere. O, forse, da reagire.
LEONARDO LIDI
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